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23/07/2018

 

LA RADICALIZZAZIONE NELL’ERA DELLA GLOBALIZZAZIONE

di Silvia Malafarina

 

La radicalizzazione nell’era della globalizzazione Uno degli elementi che principalmente caratterizza quello che oggi potremmo definire come terrorismo ‘globale’, ‘homegrown’ è il fenomeno della radicalizzazione autonoma, che vede coinvolti giovani provenienti da ogni parte del mondo pronti a combattere in nome del Califfato islamico. Con il termine di radicalizzazione, si intende quel processo mediante il quale un singolo individuo o un gruppo mette in atto azioni violente, con l’intento di affermare la supremazia della propria ideologia estremista; sia essa politica, religiosa o sociale. Quello della radicalizzazione è un fenomeno che, in quanto determinato da un carattere processuale, si manifesta come il prodotto di una interazione dinamica tra una serie di fattori e fenomeni sociali legati tra loro, i quali producono un mutamento che coinvolge progressivamente l’individuo. Per questo motivo essa non si manifesta improvvisamente. Il percorso di radicalizzazione, infatti, ha a che fare con le motivazioni personali proprie dell’individuo, le quali interagiscono con una particolare contingenza storico-politica. La battaglia lanciata da al-Baghdadi, leader dello Stato islamico, ha riscosso enorme successo soprattutto tra i più giovani, generando numeri sempre maggiori di volontari provenienti da ogni parte del mondo, pronti a combattere in nome della jihad islamica. Migliaia di cittadini europei, immigrati di seconda generazione ma anche autoctoni convertiti, combattono in Siria e in Iraq tra le file dei gruppi jihadisti dell’Isis, sono i così detti ‘foreign fighters’, i combattenti stranieri. Essi fanno parte della terza generazione politica jihadista intesa come categoria storico-sociale, il cui elemento di coesione, ovvero la ‘memoria collettiva’ che plasma la loro identità, consiste nell’adesione all’islam radicale mediante l’impegno nelle formazioni jihadiste. La terza generazione politica jihadista, ovvero, quella dei siriani, succede a quella degli afghani e a quella più vasta dei qaedisti. Nel corso del jihad siro-iracheno si è registrato un flusso di foreign fighters molto consistente e variegato. I paesi del mondo arabo-islamico restano il principale bacino di reclutamento, ma moltissimi dei giovani combattenti provengono dall’Europa, così come dal Caucaso e dall’Asia Centrale. Ma quali sono dunque le motivazioni che spingono i giovani di oggi a radicalizzarsi e ad abbracciare la causa dello Stato islamico? Occorre fare una distinzione. Per quanto concerne i combattenti autoctoni convertiti che militano nelle schiere dell’Isis, essi abbracciano la religione salafita che predica un ritorno alle fonti originarie dell’islam, privilegiando una visione scritturalista delle fonti religiose, nella quale la jihad ha un ruolo centrale. Per cui le cause che li spingono a radicalizzarsi si fondano soprattutto su una ideologia di carattere religioso. Per quanto riguarda i giovani musulmani che vivono in Occidente e aderiscono alla jihad, invece, essi hanno a che fare con un processo di radicalizzazione che alla base presenta motivazioni più legate alla ideologia politica che religiosa. Ovvero, nel caso dei foreign fighters occidentali, la conversione all’islam radicale è soprattutto la conseguenza di una radicalizzazione politica derivante da un rifiuto della politica estera o interna, del paese in cui vivono. Tra le fila dei combattenti jihadisti, la parte più consistente è costituita soprattutto dai giovani appartenenti alla seconda generazione di immigrati musulmani in Europa. Una generazione caratterizzata dalla ‘doppia assenza’, in quanto l’immigrato non si sente rappresentato né come cittadino né come straniero; come se fosse fuori dalla sua comunità di origine e al tempo stesso non facesse del tutto parte della società in cui vive. Condizione che conduce inevitabilmente ad un sentimento di risentimento, recriminazione e stigmatizzazione. Alla base di questa situazione caratterizzata anche dalla marginalità sociale che vede coinvolte queste figure, è possibile riscontrare nella mancata o difficile integrazione islamica, una delle componenti che portano i giovani immigrati di seconda generazione ad iniziare un processo di radicalizzazione islamica. L’islam radicale, infatti, viene visto da questi giovani combattenti come un punto di riferimento all’interno di una realtà che si presenta come estranea a loro, ostile, priva di valori. Questo grazie alla capacità da parte del movimento jihadista, di esporre una base dottrinale articolata, rigida ma aperta a tutti. In questa prospettiva, la conversione è espressione di una ricerca di senso che porta ad attribuire significati religiosi alla lettura politica della realtà circostante. L’islam radicale, infatti, si presenta come capace di offrire un senso agli individui, presentando loro una nuova normatività, ponendosi come la sola e autentica verità. Via di uscita da una realtà dalla quale fuggire attraverso l’ egira interiore, che si esplica in una rottura con l’ambiente circostante, distacco fisico dalla realtà occidentale. Isis si pone infatti come un’entità statale con proprie regole e un sistema di ‘protezione sociale’, per attrarre a sé i musulmani non integrati nella società occidentale e disposti ad aderire alla jihad. Esso si fa portatore di istanze politiche che sono incompatibili con le forme statuali contemporanee, espressione di un netto rifiuto della cultura occidentale, in cui i giovani vedono dunque l’unico strumento di contrasto ai sistemi politici e culturali occidentali. L’adesione all’islam radicale, rappresenta così la possibilità per i giovani mujahidin di ricostruire quella identità andata perduta. L’identità religiosa radicale, infatti, è strettamente legata al concetto di comunità. Attraverso di essa si ricrea una forte unità di appartenenza alla umma, e quella jihadista si presenta appunto come una comunità caratterizzata da valori precisi e ben definiti. Gli individui che ne fanno parte, non essendo inseriti in nessun contesto religioso, politico e culturale, aderiscono così ad una concezione normativa della Legge religiosa, rinforzata dalla prassi militare, ritrovandovi un contesto culturale definito, fondato su principi chiari. Ecco perché anche giovani non musulmani nati e cresciuti in Europa, decidono di aderire alla ideologia estremista dell’islam radicale, la quale si esplica nel rifiuto della ‘westoxification’, intossicazione da Occidente, sia per quanto riguarda le forme di dominio politico ma anche dalle forme culturali e stili di vita occidentali. L’integralismo islamico non può essere considerata la sola causa di questo terrorismo. Infatti, la particolarità del fenomeno sta nel fatto che il jihadismo occidentale, sia rappresentato da un movimento di giovani che si costituisce al di fuori dei punti di riferimento religiosi e culturali dei genitori; essi rifiutano la loro autorità e il loro Islam, intraprendendo un percorso individuale di desocializzazione. L’altra componente che conduce questi giovani al processo di radicalizzazione, infatti, è legata al forte ‘individualismo’ e alla ‘deistituzionalizzazione’ che permea la società contemporanea globalizzata, il quale si esprime anche attraverso percorsi soggettivi e che trova voce soprattutto nella radicalizzazione dei giovani attraverso il Web. Esso, infatti, permette di ricreare in uno spazio virtuale la umma deterritorializzata, in cui ritrovare un’identità e un senso di appartenenza. Questo ‘disagio sociale’ che caratterizza lo status delle generazioni odierne è frutto del processo di globalizzazione. Esso conduce all’omologazione, all’omogeneità, appianando le diversità e l’eterogeneità che caratterizzano la realtà. Ciò che ne deriva è una ulteriore omologazione dal punto di vista culturale, che comporta una indifferenziazione degli universi culturali in nome di ‘universali culturali’ che appianano le differenze individuali. Per cui i giovani, all’interno della società in cui vivono, non vengono più definiti in relazione alla loro identità ma solo in rapporto al ruolo e alle azioni che svolgono al suo interno. Questa ‘mercificazione’ dell’individuo porta così i giovani cittadini europei e immigrati di seconda generazione ad una destabilizzazione del loro sistema di valori, e a ribaltare quella gerarchia di valori proclamata e praticata dalla società a cui appartengono, per ritrovare dei punti di riferimento validi, su cui orientare il proprio agire. Accanto a questa standardizzazione e omogeneità si generano dunque reazioni identitarie che si oppongono ad una tale situazione in modo talvolta violento. Con l’intensificarsi della globalizzazione e dell’effetto omologante che ne deriva, aumentano le reazioni a questa condizione, reazioni che si esprimono attraverso le rivendicazioni di identità, che rivendicano appartenenze di civiltà e religiose. La tendenza all’omologazione e all’individualizzazione porta dunque all’impossibilità di creare delle identità forti o adesioni collettive. Per cui l’appartenenza transnazionale che propone il Califfato è funzionale alla costruzione dell’identità perduta, trascendendo la dimensione dello stato nazionale. Quello che offre il Califfato come rimedio al ‘nichilismo’ giovanile che caratterizza la generazione odierna dei giovani combattenti, si esplica così nella possibilità di rivendicare un ruolo preciso all’interno della società che li ha rifiutati, non solo combattendo per una causa globale di cui si sentono parte, ma anche e soprattutto per mezzo della pratica degli attentati suicidi, che permette loro di diventare martiri ed eroi, con la promessa di un al di là paradisiaco. Delineando dunque, i tratti comuni che vanno a definire un profilo ‘tipico’ del radicalizzato, sebbene manchino indici socio-economici o psicologici oggettivi, possiamo affermare che si tratti di giovani di seconda generazione o convertiti, in genere coinvolti in atti di criminalità comune e con un ritorno tardivo alla pratica religiosa, che sono il frutto dell’era della globalizzazione. La quale conduce a problematiche di carattere sociale, culturale e di integrazione, da cui partire per meglio comprendere e così arginare il fenomeno odierno della radicalizzazione.

 

 

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