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12/03/2018

 

        IL CONFLITTO SENZA TREGUA TRA ISRAELE E PALESTINA

di Ilaria Stivala

 

L’anno appena trascorso è stato ricco di accadimenti importanti, i quali talvolta hanno implicato una riflessione approfondita sulle dinamiche che li hanno originati e sulle conseguenze che potrebbero avere nel futuro. Non si parla solo degli scontri violenti che hanno tenuto il mondo con il fiato sospeso, ma anche di eventi che, sebbene meno disastrosi nell’immediato, sono stati all’origine del ripensamento di alcune politiche e strategie, che oggi non si ritengono più valide per affrontare le sfide regionali ed internazionali. Così, il 2018 si è aperto con i conflitti e le problematiche ancora irrisolte, che impongono ulteriore attenzione. Tra questi, un evento avvenuto a Dicembre 2017 che ha scosso i paesi del Medioriente riportando alla luce un conflitto mai risolto, vecchie fratture e scontri rimasti poco analizzati a livello internazionale, è stato il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele, da parte del Presidente degli Stati Uniti, Donald J. Trump, seguito dall’annuncio dell’intenzione di spostare l’ambasciata americana lì.

 

Questa dichiarazione ha aperto un dibattito circa le motivazioni che hanno portato a compiere una mossa dalle conseguenze ancora incerte, ma sicuramente in grado di sconvolgere lo status quo. Alcuni sostengono che lo scopo principale dell’iniziativa sia quello di fornire un’ulteriore vantaggio all’alleato israeliano; altri, che essa sia stata fatta con l’intento di risolvere quello che sembra essere un caso esemplare di conflittualità permanente portando le due parti al tavolo dei negoziati. Entrambe le ipotesi sembrano riscuotere consensi sia alla luce degli eventi che storicamente hanno portato alla contrapposizione tra Israele e Palestina, sia se si considerano le tendenze più recenti.

 

Gli scontri hanno origine nel 1947 quando, con la risoluzione n°181, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite invitava alla separazione degli stati ebraici e arabi in quella che allora era la Palestina. Secondo la risoluzione, che gli Stati Uniti sostenevano, Gerusalemme doveva essere esclusa da questa divisione tra i due stati e doveva essere una città internazionale amministrata dall’ONU; tuttavia, a seguito della successiva guerra civile del 1947-48 in Palestina e della guerra arabo-israeliana del 1948, Gerusalemme non poteva diventare una città internazionale e uno stato arabo palestinese non è mai esistito. A beneficiarne fu Israele, divenuto uno stato con pieni diritti più grande di quanto aveva deliberato la risoluzione n°181, e che arrivò a controllare Gerusalemme Ovest. Quasi due decenni dopo, durante la Guerra dei Sei Giorni del 1967, Israele riuscì ad occupare la Cisgiordania e Gerusalemme Est, annettendone immediatamente al proprio territorio, un’azione che, fino allo scorso Dicembre non era approvata dagli Stati Uniti, i quali continuavano a considerare tali aree territori occupati da Israele. [1]

 

Dunque che cosa ha significato l’inversione di rotta di Trump rispetto a quanto fatto dalle precedenti amministrazioni? Sicuramente ha concesso un inaspettato beneficio a Tel Aviv, riconoscendo di fatto il suo diritto a stanziarsi nelle aree occupate dopo la guerra del 1967, ma questa mossa non è andata solo a favore dello Stato ebraico. Infatti, il legame tra i due Paesi sembra ne abbia beneficiato notevolmente, consentendo il passaggio dal semplice supporto, che gli USA non hanno mai negato al proprio storico alleato, ad un sostanziale allineamento su più fronti.[2] Un primo esempio si può trovare nella lotta contro lo Stato Islamico, a cui Israele ha partecipato fornendo notevoli contributi alla coalizione occidentale nonostante non ne facesse formalmente parte.[3] Un ulteriore prova proviene dall’accordo di cooperazione del 12 Dicembre, con cui Trump e Netanyahu rimarcano la loro netta disapprovazione all’accordo sul nucleare raggiunto da Obama nel 2015 – che a breve dovrebbe essere oggetto di modifiche – mirando a contrastare in qualsiasi modo i programmi missilistici e nucleari dell’Iran. [4] Infine, nelle ultime settimane è stato messo sotto i riflettori il memorandum d’intesa firmato nel 2016, pochi giorni fa divenuto legge, con cui gli Stati Uniti si sono impegnati a garantire a Israele 38 miliardi di dollari in assistenza alla difesa per 10 anni. Si tratta del più alto pacchetto d’aiuti militari concessi, che alcuni esponenti del Congresso avrebbero voluto aumentare per consentire ad Israele di poter investire più denaro nell’industria bellica, ed in particolare nella ricerca missilistica, per far fronte alle crescenti sfide regionali.[5] Ma la cooperazione militare non si limita agli aiuti economici, sono infatti in corso delle esercitazioni congiunte – Juniper Cobra – tra le forze armate dei due Paesi che mirano a preparare le forze armate dei due Paesi a far fronte alle minacce e, se necessario, ad una guerra contro l’Iran o il gruppo sciita di Hezbollah. A tal fine le simulazioni includeranno l’uso del sistema di difesa missilistica Arrow, l’Iron Dome, il sistema Patriot e, per la prima volta, il sistema Sling di David, che è stato dichiarato operativo nell’aprile 2017; inoltre, gli Stati Uniti hanno dichiarato l’intenzione di intervenire a favore di Israele con la difesa missilistica in tempo di guerra.[6]

 

Ma se, come si è visto, la mossa di Trump ha portato incontestabili benefici alla partnership USA- Israele, altrettanto non si può dire del negoziato per la risoluzione del conflitto israelo-palestinese, il quale sembra arenarsi sempre sulle stesse divergenze. Qualsiasi iniziativa di pace, per avere successo, dovrebbe innanzitutto basarsi sul reciproco impegno in tal senso da parte dei suoi attori principali, Israele e Palestina, a cui dovrebbe aggiungersi il sostegno da parte della comunità internazionale, o quanto meno dai suoi esponenti principali, o dalle stesse Nazioni Unite. Per risolvere un conflitto così insidioso e duraturo, infatti, sembra necessaria la presenza di uno o più mediatori, a cui sarebbe affidato il compito di assistere le parti nella negoziazione, un ruolo che gli USA si sono auto attribuiti, riscuotendo però poco successo. Anzi, sembrerebbe che il riconoscimento di Gerusalemme abbia ottenuto il solo risultato di far convergere i cittadini israeliani e palestinesi nella volontà di non accettare la soluzione che sarà proposta dall’Amministrazione Trump. Non solo. Secondo alcuni funzionari palestinesi, la decisione ha rafforzato l’influenza degli appelli provenienti da leader estremisti ad intraprendere delle “guerre sante”, ciò non solo ha danneggiato l’intera regione, che ora è segnata da una forte instabilità, al punto da far ritenere possibile una guerra nel breve periodo, ma ha anche delegittimato ancor più gli Stati Uniti come arbitro nel processo di pace.[7]

 

Tuttavia, l’amministrazione Trump non sembra essere scoraggiata e continua a muovere i propri passi nella direzione annunciata a dicembre dello scorso anno.

 

Poche settimane fa l’annuncio della data in cui l’ambasciata verrà spostata da Israele a Gerusalemme: il 14 maggio, in coincidenza con il 70° anniversario della nascita di Israele. Inoltre, sono trapelate notizie riguardanti il piano di pace che a breve dovrebbe essere proposto in via ufficiale, in cui si conferma la preferenza per la creazione di due Stati, uno ebraico con Gerusalemme Ovest come capitale ed uno palestinese con capitale Gerusalemme Est, mentre la Città Vecchia verrebbe divisa tra i due contendenti. Ulteriori previsioni riguardano poi i nodi cruciali del conflitto: gli insediamenti in Cisgiordania, da cui Israele dovrebbe ritirarsi, e la questione dei profughi palestinesi.[8]

 

Sulla questione incidono però fattori strutturali, politici e religiosi difficilmente superabili. Innanzitutto, le autorità israeliane negli anni hanno sempre più intensificato l’espansione delle colonie e delle relative infrastrutture nell’area della Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, effettuando un gran numero di demolizioni illegali delle proprietà palestinesi. Tali azioni, che i palestinesi considerano una campagna per cancellare di fatto lo stato palestinese, sono state accompagnate da ripetute ed accertate violazioni dei diritti umani. Le forze di sicurezza israeliane, infatti, hanno regolarmente utilizzato una forza eccessiva, uccidendo o ferendo gravemente migliaia di manifestanti, e sono accusate di aver detenuto abusivamente sospetti assalitori o chiunque ritenessero una minaccia al mantenimento dell’ordine. Secondo quanto riportato da organizzazioni non governative come Human Right Watch, dal 1967 al 2017, Israele ha stabilito circa 237 insediamenti, al cui interno vivono circa 580.000 coloni, che godono di protezione legale, diritti e benefici. Trattamento del tutto differente è, invece, riservato ai palestinesi residenti nello stesso territorio e soggetti alla legge militare, a restrizioni sulla liberà di circolazione, commercio e associazione.[9]

 

Sebbene l’Autorità Palestinese abbia più volte denunciato tali violazioni e il Consiglio per i Diritti Umani ONU abbia condannato tali azioni, definendole crimini in contrasto con le leggi internazionali, chiedendo la loro interruzione e la punizione dei privati che si sono resi colpevoli di crimini contro i palestinesi, ad oggi non sono state prese misure efficaci e pratiche per punirle. [10] Inoltre, l’attuale governo israeliano è scettico nei confronti delle concessioni ai palestinesi ed ha più volte giustificato le restrizioni imposte ai vicini sottolineando il sostegno che l’Autorità Palestinese continua a fornire ai terroristi, pagando loro o le loro famiglie per gli attacchi compiuti contro lo Stato ebraico o i suoi cittadini.[11]

 

Anche la questione dei rifugiati palestinesi merita una specifica trattazione, non solo perché, come si è detto, si tratta di uno dei nodi centrali del processo di pace israelo-palestinese, ma anche perché il loro numero crescente e le loro drammatiche condizioni di vita impongono un’adeguata riflessione, nonché la ricerca di una soluzione rapida, efficace e duratura.

 

I rifugiati palestinesi includono i 700.000 civili che lo diventarono in seguito della guerra arabo- israeliana del 1948, quelli che lo diventarono successivamente alla guerra del 1967, così come coloro che trovandosi all’epoca al di fuori dei confini di quello che era il territorio palestinese furono impossibilitati a tornare, oppure non lo fecero temendo di essere perseguitati. Ad essi vanno poi aggiunti i discendenti così che, secondo quanto riportato dall’UNRWA, all’inizio del 2007 c’erano approssimativamente 7 milioni di rifugiati e 45.0000 palestinesi internamente dislocati, i quali rappresentano il 70% dell’intero popolo palestinese nel mondo (9.8 milioni). [12] La richiesta palestinese in merito è il cosiddetto “diritto di ritorno”, una sorta di giustizia nei loro confronti che prevede la possibilità di tornare nel loro paese, e sia Fatah che Hamas sono decisi a non accettare alcun accordo che non soddisfi questa rivendicazione. Israele, però, non può accettare il diritto al ritorno senza abbandonare la sua identità ebraica in quanto aggiungere 7 milioni di arabi alla popolazione di Israele renderebbe gli ebrei una minoranza – la popolazione totale di Israele è di circa 8 milioni, un numero che include già 1,5 milioni di arabi. Uno dei problemi centrali nei negoziati, quindi, è come trovare un modo per ottenere giustizia per i rifugiati che sia il popolo israeliano che quello palestinese possono accettare. Le idee proposte finora comprendono compensazioni finanziarie e reinsediamento limitato in Israele sulla base di un “criterio umanitario individuale”, ma le due parti non hanno mai concordato i dettagli di come funzionerebbero.

 

Ogni ipotesi di trattativa è al tavolo dei negoziati, ma la soluzione è ben lontana dall’essere trovata. La possibilità di creare due Stati, come previsto dagli Accordi di Oslo del 1993 e dalla risoluzione n° 242 delle Nazioni Unite, non trova il sostegno di Israele, che non ha eliminato la propria legge del 1980 secondo cui Gerusalemme dev’essere la sua “capitale indivisa”; ma non trova nemmeno quello dell’Autorità Palestinese. Quest’ultima, infatti, ha iniziato il 2018 con un’intensa attività diplomatica volta a trovare un sostegno internazionale al riconoscimento di Gerusalemme come sua capitale, denunciando le violazioni israeliane nei suoi territori e facendo pressione affinché venga svolta un’indagine legale contro tali crimini. A complicare la questione non va poi dimenticata la componente religiosa che, nonostante non venga usata nella propaganda politica né dal primo ministro Benjamin Netanyahu né dal presidente Mahmoud Abbas, è forse la ragione principale per cui lo stallo nelle trattative permane da decenni lasciando quel territorio diviso tra due unità politicamente e religiosamente differenti ed inconciliabili.

 

 

BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA:

 

[1] J. Sciarcon, “Trump’s Jerusalem Decision: A US Policy Perspective”, E-International Relations, 2018: http://www.e-ir.info/2018/01/15/trumps-jerusalem-decision-a-us-policy-perspective/

[2] R. Kampeas, ”State Department official: US and Israel are best friends forever”, The Times of Israel, 2018:  https://www.timesofisrael.com/state-department-official-us-and-israel-are-best-friends-forever/

[3] N. Cordaro, “Israel’s strategy against Isis”, Patrick Henry College’s intelligence and international relations journal, 2017: http://www.phcintelligencer.com/2017/05/17/israels-strategy-against-isis/

[4] J. Manchester, “US, Israel reach cooperation agreement on Iran: report”, The Hill, 2017:  http://thehill.com/policy/international/366721-us-israel-reach-cooperation-agreement-on-iran-report

[5] E. Benari, “House bill would codify U.S.-Israel MOU into law”, Arutz Sheva, 2018: https://www.israelnationalnews.com/News/News.aspx/242643

[6] A. Ahronheim, “U.S. and IDF troops, in major joint drill, simulating battle on 3 fronts”, The Jerusalem Post, 2018: http://www.jpost.com/Israel-News/Juniper-Cobra-begins-with-US-and-IDF-troops-simulating-missile-attacks-544598

[7] L. Smith-Spark, A. Carey, “Trump’s Jerusalem decision: How the world reacted”, CNN, 2017: https://edition.cnn.com/2017/12/06/middleeast/jerusalem-israel-us-intl/index.html

[8] M. Bachner, “Support up among Israelis, Palestinians for violent solution to conflict- poll”, The Times of Israel, 2018: https://www.timesofisrael.com/poll-finds-increased-support-for-violent-solution-to-israel-palestinian-conflict/

[9] Human Rights Watch, “Israel: 50 Years of Occupation Abuses”, 2017: https://www.hrw.org/news/2017/06/04/israel-50-years-occupation-abuses

[10] Human Rights Council, Israeli settlements in the Occupied Palestinian Territory, including East Jerusalem, and the occupied Syrian Golan, United Nations High Commissioner for Human Rights, March 2017

[11] L. Harkov, “Palestinians increase payments to terrorists to $403 million”, The Jerusalem Post, 2018: http://www.jpost.com/Arab-Israeli-Conflict/Palestinians-increase-payments-to-terrorists-to-403-million-544343

[12] Palestine Refugees, UNRWA: https://www.unrwa.org/palestine-refugees

 

per scaricare il pdf: il conflitto israelo- palestinese