07/11/2018
IL CASO KHASHOGGI: TUTTE LE POSSIBILI CONSEGUENZE
di Gabriele Ferrara
Una delle questioni che hanno occupato maggiormente il dibattito pubblico internazionale nel corso della prima parte dell’autunno è stata il caso Khashoggi. Il giornalista nato a Medina, noto soprattutto in quanto columnist del Washington Post, è stato ucciso lo scorso 2 ottobre nel consolato saudita di Istanbul, dove si era recato per una pratica di divorzio . Jamal Khashoggi era in esilio volontario dall’Arabia Saudita da un anno ed era noto per le sue posizioni critiche verso il leader de facto del suo paese d’origine: Mohammed bin Salman. Uno degli ultimi lasciti dello scrittore è stato un articolo in cui sottolinea l’importanza della libertà di espressione nel mondo arabo, ritenuto uno degli elementi mancanti e al tempo stesso essenziali per la sua crescita e consapevolezza dei problemi di molti paesi del Medio Oriente. Khashoggi non ha nascosto le sue perplessità circa le riforme che l’attuale ministro della Difesa e vicepremier sta attuando in termini di diversificazione dell’economia e lotta al terrorismo, ritenendole di fatto poco più che una mera questione di facciata. Per suffragare la sua tesi, il giornalista ricorda che, secondo il report 2018 sulla libertà nel mondo, l’unico paese arabo classificato come “libero” è la Tunisia .
Più in generale, nel corso della sua attività professionale Khashoggi ha più volte ricordato l’assurdità della guerra in Yemen, che ha distrutto le infrastrutture del paese, e ne ha evidenziato i problemi soprattutto in termini di povertà, senza dimenticare quelli atavici riguardanti in primo luogo l’istruzione e in generale il malgoverno. In seguito alla sua morte varie dichiarazioni ufficiali hanno affermato l’incidentalità dell’accaduto, fino a che un procuratore saudita, oltre al governo stesso, ha ammesso la premeditazione dell’omicidio . Come se non bastasse, lo scorso 31 ottobre il procuratore turco che si sta occupando del caso ha dichiarato ufficialmente che Khashoggi è stato strangolato dagli attentatori, che poi avrebbero fatto a pezzi il suo corpo, attualmente disperso . In una telefonata con Mohammed bin Salman avvenuta lo scorso 24 ottobre, il presidente turco Recep Tayiip Erdogan ha affermato più volte che i 18 incriminati – tra cui figurano alcuni alti funzionari dell’intelligence saudita – dovranno essere interrogati dalle autorità saudite, altrimenti bisognerà estradarli in Turchia; Erdogan ha mostrato una chiara preferenza per la seconda opzione. In questi giorni è giunta anche l’ammissione del ministro degli Esteri saudita, Adel al-Jubeir, che ha porto le sue condoglianze alla famiglia di Khashoggi definendo il caso un “errore enorme” , sottolineando gli abusi di poteri degli assassini. Ciò nonostante, molti leader europei non credono al fatto che tutto ciò sia potuto avvenire senza l’assenso del principe saudita.
La risposta dell’Europa e la guerra nello Yemen
Le perplessità circa la dinamica dell’omicidio hanno condotto molti paesi occidentali a minacciare ritorsioni e sanzioni, a cominciare da Germania e Francia. A questo proposito, lo scorso 26 ottobre Angela Merkel, in occasione di una conferenza a Praga, ha affermato: “Bisogna chiarire cosa c’è dietro a questo orribile incidente. Se questo non dovesse accadere, non forniremo più armi all’Arabia Saudita” . In questo senso, è interessante segnalare che la Germania è il terzo Paese per valore di esportazioni in Arabia Saudita (8,16 miliardi di dollari, dietro solo a Stati Uniti e Cina ). Per quanto riguarda la Francia invece, Yves Le Drian, ministro degli Esteri, lo scorso 31 ottobre ha dichiarato che, nonostante si debba prima accertare quale sia stato l’effettivo svolgimento dei fatti, non è da escludere che ci siano sanzioni nei confronti dell’Arabia Saudita. Inoltre, ha ricordato che l’export di armi francesi – terzi al mondo dopo USA e Russia – verso il Paese incriminato vale solamente il 7% delle loro esportazioni nel settore. Ad ogni modo, come emerge nel report annuale del ministero della Difesa sulla vendita delle armi, nel 2017 la Francia ha venduto armi per sette miliardi di euro, di cui il 60% in Medio Oriente (3,92 miliardi, nel 2016 la cifra ammontava a 1,94 ). Per aumentare la sua influenza diplomatica nella regione, infatti, Parigi procura navi, carri armati, artiglieria e munizioni non solo all’Arabia Saudita, ma anche agli Emirati Arabi Uniti e all’Egitto.
Questi paesi sono accomunati dall’appartenenza al medesimo schieramento nella guerra civile dello Yemen, stato confinante a sud dell’Arabia Saudita che dal 2015 vede in atto una sanguinosissima guerra civile. Gli schieramenti sono tre: il governo appoggiato dai sauditi e dai suoi alleati, Stati Uniti inclusi, le forze degli Huthi supportate da Hezbollah e infine AQAP (al-Qaida nella Penisola arabica) e lo Stato Islamico, che ultimamente hanno subito alcuni attacchi pesanti dai droni statunitensi, ma che in precedenza avevano approfittato della situazione di stallo per seminare terrore e guadagnare terreno. Lo scorso maggio, infatti, dopo le sconfitte maturate in Siria e Iraq, l’ISIS ha incitato i suoi seguaci a dirigersi verso Al Bayda, provincia dello Yemen . Anche in considerazione di un possibile rigurgito da parte dei terroristi, gli Stati Uniti vorrebbero concludere la guerra velocemente, con lo Yemen che versa in condizioni disastrose. In tal senso, è interessante notare che il paese figura al 113esimo posto (su 190) per PIL nominale , al 156esimo (su 214) per PIL pro capite e al 178esimo (su 189) per indice di sviluppo umano . Anche per queste ragioni, lo scorso 23 ottobre il Sottosegretario generale delle Nazioni Unite per gli affari umanitari, Mark Laukok, ha avvertito che una possibile carestia nello Yemen potrebbe rivelarsi una delle più mortali nella storia umana. Ad essere coinvolte sarebbero addirittura 14 milioni di persone, ovvero metà della popolazione locale, che in questo modo dipenderebbero esclusivamente dagli aiuti umanitari . In una situazione in cui solamente metà delle strutture mediche funziona e molte delle persone non hanno abbastanza soldi per poter essere curate, le prospettive sono allarmanti.
Il ruolo degli USA
Tornando agli Stati Uniti, il caso Khashoggi sta riempendo le pagine dei principali quotidiani nazionali, già in fibrillazione per le elezioni di mid-term del prossimo 6 novembre. Anche in questo caso, la questione non riguarda solamente l’omicidio in sé, ma anche i rapporti tra USA e Arabia Saudita, che abbracciano la già citata guerra nello Yemen, la questione mediorientale e gli aspetti economici collegati al commercio delle armi. Riguardo il primo tema, lo scorso 31 ottobre Mike Pompeo, segretario di Stato, ha espresso la necessità di chiudere il conflitto il prima possibile e il conseguente impegno di tutte le parti affinché ciò avvenga, ma per il momento bin Salman non sembra essere dello stesso avviso . Eppure, i rapporti tra il leader saudita e l’amministrazione Trump sono sempre stati ottimi, al punto che, appena eletto presidente, il tycoon si è recato proprio a Riyad per la sua prima visita ufficiale, il 20 maggio 2017 . Da sempre alleati nella politica estera, i due Paesi hanno intensi rapporti commerciali, come dimostra il fatto che gli USA siano il primo stato per esportazioni in Arabia Saudita (il valore complessivo ammonta a 23,4 miliardi di dollari ). Intanto Trump ha ricordato l’importanza di un accordo bilaterale raggiunto nel 2017 per l’export di armi verso il regno saudita per un valore di 110 miliardi di dollari, a cui sarebbero collegati addirittura 500.000 posti di lavoro. Molti esperti hanno sconfessato questi dati. Da questo punto di vista risulta significativo un documento di Lockheed Martin, una delle principali aziende statunitense coinvolte nei settori della difesa e dell’ingegneria aerospaziale, che prevede la creazione di meno di 1,000 lavori, per un valore commerciale di circa 28 miliardi, mentre quelli aggiuntivi per l’Arabia Saudita potrebbero essere 10.000, mantenendone, nella migliore delle ipotesi, 18.000 a livello locale . Inoltre gli executives di Lockeed Martin hanno rivelato al Washington Post che, per ciò che li riguarda personalmente, per il 2019 sono previste vendite in Arabia Saudita per un valore inferiore a 500 milioni di dollari, che arriveranno a 900 nel 2020, senza contare i contratti che dovrebbero siglare rispettivamente per navi da guerra e per un sistema di difesa missilistico che dovrebbe essere operativo nel territorio saudita a partire dal 2023.
Complessivamente, secondo lo Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI), Riyad per il momento importa il 98% delle sue armi dall’Unione europea e dagli Stati Uniti, con un aumento che negli ultimi anni è stato del 225%. Complessivamente, i sauditi ricevono 78 aerei da guerra, 72 elicotteri, 328 carri armati e 4.000 veicoli . Negli ultimi cinque anni circa metà delle armi esportate dagli USA sono finite in Medio Oriente , dove gli interessi di questi ultimi e dell’Arabia Saudita sono sempre andati nella stessa direzione. Per esempio, i due sono sempre stati alleati contro l’Iran, contro cui saranno operative le sanzioni americane a partire dal prossimo 5 novembre. Su questo fronte la volontà di Trump è di penalizzare fortemente Tehran – la cui economia è estremamente legata al petrolio – e le sue ambizioni missilistiche e nucleari. Washington sta mettendo sempre più pressione su alcuni dei principali clienti dell’Iran, soprattutto Cina e Turchia, che figurano rispettivamente al primo e terzo posto nelle importazioni della Repubblica Islamica . Riguardo l’export, invece, lo scorso 29 ottobre il segretario del Tesoro statunitense, Steven Mnuchin, ha dichiarato alla Reuters che i Paesi dovranno tagliare i loro acquisti del 20% rispetto alle sanzioni precedentemente in vigore . Tornando alla Turchia, invece, a questo punto il paese potrebbe acquisire un’importanza geopolitica cruciale, proprio perché da esso potrebbe dipendere una parte consistente dell’affaire Khashoggi; ciò permetterebbe alla Turchia di trovarsi in una posizione di potere al tavolo dei negoziati con gli Stati Uniti. Dopo il progressivo raffreddamento dei rapporti tra Erdogan e Trump, questo potrebbe rendere “il sultano” cruciale per varie questioni geopolitiche, in primis quelle mediorientali, nell’ambito delle quali potrebbe cercare di ottenere concessioni importanti. Non bisogna dimenticare neanche i rapporti tesi tra i due stati riguardo la NATO, con Trump che ha chiesto una maggiore contribuzione (fino al 4% del PIL, mentre attualmente la Turchia è ferma al 2,1% ) e che, così come il segretario generale Stoltenberg, non vede di buon occhio alcune partnership intraprese da Erdogan, in primis quella con la Russia.
Ad ogni modo, il rapporto tra l’amministrazione Trump e Riyad sembra ancora piuttosto solido. A questo riguardo, finora uno dei collanti fondamentali è stato il rapporto privilegiato tra bin Salman – il quale intanto ha avviato una riforma dei servizi segreti – e Jared Kushner, genero del presidente e suo senior advisor. Tuttavia, al momento, la volontà del Congresso sembra essere quella di imporre sanzioni all’Arabia Saudita, desiderio condiviso sia dai democratici che dai repubblicani, come dimostra il progetto di legge presentato lo scorso 24 ottobre da un gruppo bipartisan della Camera dei Rappresentanti per interrompere la vendita di armi all’Arabia Saudita. Ciò nonostante, anche se il Congresso ha buonissime probabilità di spingere Trump a firmare un testo di legge che implichi sanzioni nei confronti di Riyad – come già accaduto con la Russia – molti analisti del settore ritengono improbabile che possano esserci grosse limitazioni al commercio delle armi con l’Arabia Saudita , almeno finché Trump sarà presidente degli Stati Uniti.
per scaricare il pdf: il caso Khashoggi