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19/03/2019

 

CHE FINE HANNO FATTO I FOREIGN FIGHTERS?

di Irma Tatani

 

Nato nel giugno del 2014, l’Isis è stato proclamato sconfitto a fine 2017. Ha perso gran parte del territorio sia in Iraq sia in Siria, le entrate economiche sono crollate di 81 milioni di dollari al mese a 12 milioni, gli attentati sono falliti del 20 percento e le vittime in Europa sono calate del 75 percento. Che fine hanno fatto i 40mila “foreign fighters” provenienti da 110 paesi? I foreign fighters sono i volontari stranieri attratti dalla bandiera nera del Califfato, convinti dai divulgatori dell’Islam e dalla propaganda sul web che sono diventati soldati dello Stato Islamico. Negli ultimi anni migliaia di giovani europei sono partiti per la Siria attratti sempre di più dalla promessa della rinascita del Califfato. Circa il 75 percento di loro provengono da quattro Paesi: Francia, Belgio, Gran Bretagna, Germania e un centinaio dall’Italia. La loro età media oscilla tra i 18 e 30 anni ed il 18 percento di loro sono donne. Non tutti hanno origini arabe, circa il 6 percento hanno origini europee che si sono convertiti all’Islam.

Alla base della loro scelta c’è un percorso di tipo esistenziale causato da motivi socio-economici, dall’emarginazione e dalla mancata certificazione d’identità. Quindi fare parte di un progetto come quella della guerra santa crea un’identità e certifica il fatto che loro esistono e che hanno uno scopo all’interno società.

Una parte dei 40mila volontari è tornata a casa. Questo costituisce un pericolo perché i rimpatri, qualunque sia il motivo per cui tornano a casa, continueranno a rappresentare una minaccia concreta per la nostra società. Esistono cinque categorie di returnees, ovvero coloro che ritornano: 1)quelli che sono rientrati troppo presto o dopo una breve permanenza, 2) quelli rientrati dopo, ma disillusi dal comportamento sempre più violento e brutale da parte degli esponenti dell’Isis, 3) quelli che non hanno avuto scrupoli nell’applicare le tattiche dell’Isis ovvero coloro che sono pronti ad altre battaglie, 4) quelli costretti a lasciare il Califfato oppure catturati, 5) quelli spediti a combattere in altri scenari: si tratta di combattenti che sono stati preparati alle fasi successive alla caduta.

Nell’estate 2017 la Radicalization Awareness Network (RAN) stimava che il 30 percento dei 5000 combattenti provenienti dall’Europa avesse fatto ritorno in patria. In altri paesi come il Regno Unito, Danimarca e Svezia, il numero dei combattenti si avvicina al 50 percento di quelli partiti. Agli inizi del 2018 il Presidente russo Vladimir Putin ha dichiarato che il 10 percento dei 9.000 foreign fighters russi e delle ex repubbliche sovietiche era rientrato in patria. Dei 125 combattenti italiani 40 sono considerati deceduti, altri sono stati catturati in Siria. Ricordiamo la ventiduenne padovana Meriem Rehaily, partita nel 2016, tutt’ora in mano ai curdi. Non si hanno più notizie di Maria Giulia Sergio condannata a nove anni di reclusione dalla Corte di Appello di Milano, che nell’estate del 2015 dichiarava di voler decapitare tutti gli infedeli in nome di Allah.

 

Attualmente poche migliaia dei foreign fighters sono rimasti in Siria e Iraq e altri hanno raggiunto la Libia e l’Afghanistan; circa un centinaio sono morti nei raid, alcuni dispersi e altri sono tornati nel paese d’origine. Millecinquecento sono arrivati in Europa, alcuni arrestati e altri in clandestinità ma ancora ben attivi, come dimostrano gli attentati a Strasburgo nel Natale 2018 e quello di Manchester a Capodanno.

A Baghdad si sono tenuti qualche centinaio di processi in assenza di prove concrete, durati pochissimi minuti, con 300 sentenze di condanna a morte e 185 ergastoli. Il problema principale sono i 400 detenuti che si trovano all’interno delle carceri curde, perché i curdi non hanno né stato e né legge e chiedono ai governi europei di riprendersi e processare i loro cittadini. Nessuno Stato ha chiesto l’estradizione perché l’Europa ha bisogno di prove concrete, si tratta di un procedimento troppo complicato e costoso. La permanenza in carcere non è una soluzione ottimale perché le carceri ormai sono considerate il terreno fertile dove radicalizzare e reclutare più persone possibili. Al Baghdadi ha creato l’Isis mentre era detenuto in un carcere statunitense in Iraq a Camp Buqqa, ed è lì che ha incontrato i suoi più affidabili luogotenenti. Altro pericolo è costituito dal rischio che i curdi liberino questi combattenti, e in tal caso vi è un’elevata possibilità che le intelligence europee ne perdano le tracce. In questi giorni la Svezia ha proposto di stabilire un tribunale internazionale per giudicare i foreign fighters dell’Isis. Lo ha dichiarato il ministro degli Interni Mikael Damberg in un’intervista, affermando che in diversi Paesi dell’Unione Europea, come la Svezia, manca la volontà di riprendersi i combattenti dell’Isis, e che un tribunale internazionale alleggerirebbe il problema testimoni, della raccolta delle prove e degli interrogatori. Il ministro solleverà la questione nell’incontro con i suoi colleghi europei a Bruxelles, auspicando la volontà dell’Europa nel discutere e analizzare a fondo l’idea per creare questo tribunale.

 

per scaricare il pdf: Che fine hanno fatto i ftf