18/12/2017
FOREIGN FIGHTERS.
DAL PROCESSO DI RADICALIZZAZIONE AL JIHAD
di Enrico Colarossi
Il fenomeno dei foreign fighters, i combattenti stranieri, ha origini ben lontane ma sicuramente ha assunto maggiore notorietà e destato ancor più preoccupazione nella comunità internazionale, con la nascita e sviluppo dello Stato Islamico.
Si pensi alla jihad antisovietica combattuta in Afghanistan tra il 1979 e il 1989, dove diversi combattenti provenienti da diversi paesi occidentali, si sono volontariamente arruolati tra le fila dei Talebani per combattere l’invasione dell’Armata Rossa.
Anche i combattimenti in Bosnia-Erzegovina, in Somalia, Pakistan, Cecenia e Mali hanno registrato la presenza di circa 30.000 giovani europei e non, combattere in milizie e gruppi armati costituiti in gran parte da “stranieri” in armi.
Le cronache recenti hanno dimostrato come diversi giovani, uomini e donne, provenienti da diversi paesi del mondo hanno raggiunto le wilayat, ovvero, le province del Califfato divenendo jihadisti al servizio di Abu Bakr al-Baghdadi.
Jihadisti del drappo nero che hanno combattuto e conquistato territori di Iraq e Siria, e le loro vittorie hanno alimentato lo spirito di emulazione e una rinascita identitaria di giovani occidentali, corteggiati dall’idea e dal sogno di creare uno stato in cui ritrovare se stessi e una comunità guidata dalla Sharia. Una comunità non più decadente e immorale come quella occidentale, che oltre a dare loro i natali, ha originato sentimenti di delusione per una mancata e piena integrazione sociale o religiosa.
Il fenomeno dei foreign fighters è al centro di dibattiti e lavori da parte di diverse istituzioni, soprattutto ora, che lo Stato Islamico sta vivendo una sconfitta sul piano militare ma non su quello “ideologico”. Infatti, la maggior preoccupazione ora, è rappresentato dal rientro in “patria” di jihadisti il cui obiettivo è continuare a combattere e portare il jihad al di fuori della dar al-Islam, colpendo l’occidente e i suoi governi corrotti.
La maggior parte dei foreign fighters che hanno alimentato le milizie dello Stato Islamico sono partiti dall’Inghilterra e Francia, paesi che registrano una forte presenza di comunità musulmane nate a seguito dei flussi migratori degli anni ’80 e ’90; soggetti, quindi, di terza e quarta generazione, vittime di una attenta e fine azione di reclutamento da parte di organizzazioni terroristiche di matrice jihadista, come documentato attività di intelligence e indagini giudiziarie di diversi paesi europei, nei confronti di cellule operative legate ad al-Qai’da e al al-Dawla al-Islamiya, ovvero, lo Stato Islamico.
Anche se i dati non possono trovare un giusto riscontro, circa un quinto dei foreign fighters dello Stato Islamico, provengono dall’Europa e maggiormente dalla Francia, dall’Inghilterra, dalla Germania e dal Belgio.
Secondo stime presentate dal Consiglio dell’Unione Europea, tra il 2011 e il 2013, circa 30 mila foreign fighters hanno raggiunto i territori di Iraq, Siria e Libia, il cui avvicinamento e arruolamento avveniva presso moschee illegali, internet point, centri culturali di dubbia costituzione, nonché, all’interno delle carceri.
Al fine di fornire dati il più possibile aderenti alla realtà, si cita quanto riportato nel rapporto stilato dal Soufan Center di New York dal titolo “Beyond the Caliphate. Foreign Fighters and the Threat of Returnees” e curato da Richard Barrett, analista proveniente dall’intelligence britannica. Barrett durante la gestione del Monitoring Team, organo alle dipendenze delle Nazioni Unite, ha per diverso tempo studiato e analizzato le dinamiche delle due grandi organizzazioni terroristiche di matrice fondamentalista islamica, al-Qa’ida e Talebani, mettendo poi a disposizione la sua esperienza per meglio comprendere il fenomeno dei foreign fighters del Califfato.
La Commissione europea, come anticipato, ha promosso il progetto Radicalisation Awareness Network con l’obiettivo di stabilire il numero dei combattenti stranieri, giungendo alla cifra di ben 42 mila soggetti che, nell’arco temporale compreso tra il 2011 e il 2016, hanno raggiunto i territori occupati dal Califfato partendo da 33 paesi di “origine”. Di questi 5.600 foreign fighters sarebbero rientrati.
Secondo quanto riportato nel report:
- Dalla Russia sono partiti ben 3.417 combattenti e hanno fatto rientro in patria 400;
- dall’Arabia Saudita sono rientrati 760 soggetti dei 3.244 partiti;
- dalla Giordania 3.000 combattenti e rientrati circa 250;
- dalla Tunisia ben 2.926 e tornati in 800;
- dalla Francia, non molto dissimile dal dato sopra fornito, 1.910 unità combattenti hanno raggiunto Siria e Iraq e ne sono rientrati 271;
- dal Belgio 470 combattenti, paese in cui risiede una forte ed attiva comunità islamica radicale;
- dall’Italia 125 foreign fighters, diversi dei quali deceduti nel corso dei combattimenti.
Un dato non va sottovalutato, ovvero, che tra i foreign fighters ci sono molte donne e bambini; le donne hanno avuto, ed hanno, un ruolo di importanza fondamentale all’interno dell’organizzazione dello Stato Islamico, sia dal punto operativo vedendole impegnate in combattimento, che logistico all’interno del dedicato “Organo per logistica volontari stranieri”.
Si consideri l’istituzione della nota brigata femminile denominata al-Khansa, impegnata, tra le altre cose, anche nella tratta di donne schiave, la maggior parte delle quali finite in bordelli poi gestiti da foreign fighters, per lo più donne francesi o britanniche.
L’importanza delle donne nel Califfato è stato addirittura disciplinato in una sorta di memorandum, dal titolo «Il ruolo delle sorelle nella jihad», e tra i compiti e doveri delle stesse vi era l’accudimento e la preparazione dei figli ai quali andavano lette storie sul jihad e sulla importanza dei combattimenti per estendere i confini dello Stato Islamico.
Secondo un rapporto dell’Europol del 2016 i foreign fighters di sesso femminile originarie o provenienti da paesi dell’Unione Europea che hanno deciso di raggiungere il Califfato, erano tra il 10 ed il 20% del totale.
Le donne olandesi, sempre secondo lo stesso report, avrebbero raggiunto il 40% di tutte coloro che hanno deciso di abbandonare l’Olanda alla volta di Iraq o Siria per combattere il jihad, e che solo l’11% di queste hanno poi deciso il “rimpatrio”.
E’ pur vero che una volta entrate nelle fila dello Stato Islamico, a molte donne è stato vietato lasciare i confini dello stesso, soprattutto, se i tratta di donne molto giovani e disposte a dare alla luce i “figli del Califfato” per garantire la sua crescita demografica.
Ai bambini era assolutamente vietata la visione di programmi televisivi occidentali per non «corrompere» le loro menti, mentre dovevano impegnarsi nel giocare con le freccette per migliorare la mira, utile pratica per i futuri combattimenti.
Il concetto espresso più volte nel citato memorandum, è che l’indottrinamento al jihad doveva avvenire sin da neonati prima che fosse «troppo tardi», rispettando categoricamente altri concetti, quello del tawally con l’obiettivo di mantenere i rapporti solo fra credenti musulmani, e l’obbligo del tabarry, quindi, dissociarsi e separarsi in ogni modo dagli infedeli.
Secondo dati ufficiali ben 859 bambini sono giunti, o nati, nello Stato Islamico:
- 460 dalla Francia;
- 118 dal Belgio;
- 50 dal Regno Unito;
- 90 dai Paesi Bassi;
- 56 dalla Germania;
- 45 dalla Svezia;
- 40 dall’Austria.
Lo Stato Islamico ha sempre posto particolare attenzione alle famiglie, poiché, queste hanno rappresentato, e rappresentano, un ruolo fondamentale per la sopravvivenza della nuova comunità jihadista.
Imam radicali e “reclutatori” esperti hanno trovato, e trovano, terreno fertile in giovani con situazioni familiari particolarmente precarie, emarginati dalla società, e nella maggior parte dei casi disoccupati il cui stato psicologico è fortemente debole. Talvolta si tratta di soggetti, che nonostante la giovane età, vantano un curriculum criminale caratterizzato da reati contro il patrimonio e la sicurezza pubblica sottolineando un disagio particolarmente acuto.
L’avvicinamento ad un credo religioso professato in modo estremistico con richiami ad una ideologia jihadista spinge l’aspirante foreign fighter a crearsi una identità nuova, quella di una famiglia pronta ad ospitarlo in un nuovo mondo, in questo caso il Califfato.
Appare di fondamentale importanza sottolineare anche il numero massiccio dei convertiti all’Islam radicale, quindi di soggetti che hanno visto l’ingresso in queste comunità come una sorta di azione e che ha permesso loro un riscatto sociale che altrimenti non avrebbero mai raggiunto.
Il nostro Paese non è immune dal fenomeno dei foreign fighters, infatti, come già anticipato si stima che circa 125 combattenti italiani – tra cui diversi di origine maghrebina – siano partiti per combattere il jihad per il Califfato, e tra questi ricordiamo Giuliano Del Nevo, che col nome di “Abu Musa”, nel giungo del 2013 muore nel corso di scontri armati in Siria mentre combatte tra le fila di Jabhat al-Nusra.
Del Nevo era un giovane nato a Genova nel 1989, e raggiunta la maggiore età decide di trasferirsi ad Ancona dove si avvicina al movimento radicale Tablighi Jamaat, e successivamente decide di convertirsi all’Islam. Rientra poi nel capoluogo ligure, dove organizza un gruppo di convertiti vicini all’ideologia Deobandi e ciò provoca un pronto respingimento da parte delle moschee locali di un suo avvicinamento.
Tra le iniziative note di rilievo condotte da Del Nevo va annoverata la creazione di una canale web su piattaforma Youtube, denominata “Liguristan”, con il quale il giovane si è impegnato in proselitismo di un credo estremista al fine di ottenere consensi e l’avvicinamento all’Islam radicale di altre persone.
Del Nevo aveva rafforzato queste ideologie estremiste anche grazie all’assidua frequenza con il salafita Usama al-Santawy, e che molto probabilmente lo hanno spinto nel 2012 a tentare il primo ingresso in Siria; giunto in Turchia viene rimpatriato dalle autorità locali.
Mesi dopo riesce ad unirsi ai combattenti islamici ceceni operativi nel teatro siriano, e viene considerato il primo foreign fighter italiano morto in Siria.
In Italia la comunità musulmana ivi residente è facilmente integrata nel tessuto sociale, la terza e la quarta generazione, qualora esistente, non ha mai esplicitamente esternato propositi criminali nei confronti della nostra nazione.
Bisogna anche sottolineare che l’Italia rappresenta da sempre una nazione di passaggio, vittima di un forte e incontrollabile flusso immigratorio clandestino dove il vero obiettivo è quello di raggiungere altri paesi europei. Nel contempo il nostro paese risulta essere anche un ottima base logistica, dove jihadisti e soggetti vicini ad organizzazioni terroristiche trovano appoggi e sostegno nelle comunità varie presenti, soprattutto, nelle periferie delle grandi città.
Il monitoraggio di soggetti, cosiddetti di interesse operativo, è favorito anche grazie ad un impianto normativo che permette di espletare attività giudiziarie preventive, che spesso consentono l’adozione di adeguate misure di contrasto, ad esempio, l’espulsione dal nostro territorio nazionale di soggetti che hanno manifestato simpatie o vicinanza a ideologie estremiste.
Non va dimenticata la storica esperienza dei nostri apparti di intelligence e sicurezza, nonché, delle forze di polizia che da sempre si confrontano con organizzazioni di natura terroristica o di tipo mafioso che hanno condotto negli anni eccellenti azioni di contrasto a detti fenomeni.
La preoccupazione più forte è che molti dei foreign fighters, con acquisita esperienza di natura tattico-operativa sul campo, possano rientrare e pianificare attacchi e attentati sul suolo europeo; preoccupazione legittima se si considera che negli ultimi attacchi compiuti in Europa dal 2014 al 2016, hanno visto la partecipazione o coinvolgimento di almeno un foreign fighter in metà degli stessi.
Attività investigative condotte dopo gli attacchi del 13 novembre 2015 a Parigi, e del successivo 22 marzo a Bruxelles hanno dimostrato, infatti, una particolare preparazione di natura militare da parte degli attentatori, certificando poi la presenza di foreign fighters rientrati dall’Iraq o dalla Siria.
In chiave preventiva attività investigative hanno reso possibile non solo monitorare foreign fighters rientrati in Occidente, ma anche sventare attentati pianificati e in procinto di essere eseguiti; infatti, secondo dati forniti dalla Commissione europea, la Francia ha impedito che ben 12 attacchi fossero compiuti, la Gran Bretagna 5 attentati, la Turchia ne ha sventati 22 e l’Australia ne ha impedito 11.
Le motivazioni che spingono un foreign fighters al rientro in “patria” possono essere diverse, come un mancato adeguamento o integrazione alla nuova vita all’interno del Califfato, o perché sono stati catturati da parte della Coalizione internazionale in chiave anti-Stato Islamico, quindi, subendo una sconfitta militare e psicologica.
Ciò che maggiormente preoccupa l’intera comunità internazionale è rappresentato, come già anticipato, dal rientro di foreign fighters preparati dal punto di vista militare il cui obiettivi sono la pianificazione e realizzazione di attacchi su suolo occidentale contro il popolo kafir, infedele.
Propaganda dello Stato Islamico, dalla Libya per la presa di Roma – DABIQ
Operazioni militari in Iraq hanno reso possibile il rinvenimento e sequestro di documentazione grazie alla quale si è stabilito che lo Stato Islamico ha addestrato cellule miste per eseguire attentati in diversi paesi europei. Cellule operative costituite, complessivamente, da ben 173 unità tra cui sei cittadini europei.
L’individuazione, il monitoraggio e, soprattutto, l’arresto di un foreign fighters possono presentare aspetti problematici di un certo rilievo che devono essere contrastati con efficaci processi di recupero e riabilitazione, e che facciano comprendere agli stessi come i valori professati all’interno del Califfato non sono attuabili in una realtà occidentale, europea e non.
Tali soggetti vanno monitorati con particolare attenzione soprattutto se ristretti in carcere, dove il pericolo di proselitismo e radicalizzazione violenta è sempre più preoccupante, tanto da costringere le diverse istituzioni all’adozione di validi strumenti di contrasto e mitigazione.
Il processo di radicalizzazione violenta presume un cambiamento di mentalità del credente, o dell’aspirante credente, che si manifesta con un mutamento comportamentale dello stesso in grado di originare azioni o condotte rivelanti l’avvio del pericoloso fenomeno.
Cambiamento di mentalità che va inteso come l’avvicinamento o l’adozione da parte di un soggetto di un’ideologia di natura politica, sociale o religiosa da vivere in modo estremistico; un soggetto disposto anche all’uso indiscriminato della violenza affinché i suoi propositi, o quelli della comunità a cui si associa, si portino a compimento.
Il processo di radicalizzazione, secondo gli esperti, è caratterizzato da quattro fasi e vanno individuate nella:
- Pre-radicalizzazione. L’aspetto caratteriale del soggetto, nonché, le caratteristiche dell’ambiente in cui egli è nato e cresciuto, condizionano la vulnerabilità di questi a ideologie estreme e violente.
- L’identificazione. L’individualità del futuro adepto è di fatto influenzata da diversi fattori, dove la sua identità viene pian piano sostituita da quella del gruppo o della comunità professante le idee estremiste. All’interno delle carceri tale fenomeno è ben noto con l’espressione “osmosi interna” che avviene con il contatto con altri detenuti già radicalizzati, o con materiale e scritti radicali, possono favorire o alimentare tale fase.
- L’indottrinamento. In questa fase l’individuo approfondisce e si immerge nello studio delle ideologie alle quali si è avvicinato, dando vita a continui confronti con gli altri elementi del gruppo giungendo alla conclusione che l’adozione di azioni violente siano il naturale passaggio successivo. In base all’esperienza maturata in ambito penitenziario, in questa fase, avviene la creazione di sotto-gruppi che prendono distanza dalla più grande comunità di stessa fede o ideologia, e ciò rappresenta un segnale di pericolo. Le dinamiche interne del sotto-gruppo si possono manifestare anche con esplicite azioni di contrasto all’autorità interna, con il rifiuto di perquisizioni e ispezioni personali considerate violazioni dei dettami coranici, e finalizzate ad un’attestazione sempre più forte e concreta delle norme religiose.
Il sotto-gruppo assume un miglior assetto organizzativo con la creazione di una vera e propria gerarchia interna, il cui scopo è l’individuazione di un leader e la ripartizione di compiti e doveri.
Va posta, quindi, particolare attenzione nell’analizzare determinati atteggiamenti o azioni che potrebbero rappresentare i cosiddetti “indicatori sulla radicalizzazione”, soprattutto tra le fasi di identificazione e indottrinamento.
Detti indicatori possono corrispondere a cambiamenti fisici, come ad esempio, indossare abiti tradizionali musulmani, farsi crescere la barba, maneggiare il tasbih (rosario musulmano ndr), oppure, cambiamenti comportamentali come l’intensificazione della preghiera, atteggiamenti ostili nei confronti dell’autorità, richieste sul tipo di bevande e cibi che rispettino i dettami coranici.
Atteggiamenti individuabili anche in comunità o gruppi non necessariamente ristrette in carcere, e che sono stati codificati in apposito manuale realizzato su volontà degli Stati Membri dell’Unione Europea, col titolo “Violent Radicalization – Recognition of and Responses to the Phenomenon by Professional Groups Concerned” (Manuale sulla radicalizzazione violenta – Commissione europea – Direzione Generale della Giustizia, Libertà e Sicurezza, 2008).
- La manifestazione. Fase in cui ogni individuo giunge all’ultimo step del processo di radicalizzazione ove matura la convinzione di agire con l’utilizzo della violenza – fisica o psicologica – affinché gli obiettivi della nuova comunità vengano realizzati. Stadio noto anche con l’espressione “jihadizzazione”, è caratterizzato dalla pianificazione, preparazione e, eventuale esecuzione, di attentati di natura terroristica con l’obiettivo di attaccare i principi democratici della società ritenuta infedele.
Individuare un soggetto già radicalizzato, senza che le quattro fasi appena esposte si manifestino esplicitamente, è estremamente difficile. Ci troviamo difronte ad un cosiddetto “radicale nascosto”, il quale assume determinati accorgimenti al fine di dissimulare posizioni estremiste.
Pratica religiosa già disciplinata dal Corano con la III Sura, versetto 2, e meglio nota con l’espressione Taqiyya il cui significato è «proteggersi», e consiste nella abilità di «occultare», e quindi dissimulare la propria appartenenza al credo religioso islamico qualora il fedele sia minacciato di morte o la comunità possa subire danni.
Il Corano legittima tale pratica, affinché, il credente musulmano abbia anche la possibilità di «infiltrarsi» nella dar al-Harb, al di fuori dei confini della comunità musulmana, ed ivi insediarsi con l’obiettivo di diffondere il messaggio jihadista, mantenendo uno stile di vita che confligge con i principi musulmani.
Va ricordata anche la pratica del Kitman, consistente in una “riserva mentale” che consente al fedele di nascondere le proprie convinzioni ed esterna solo parte di una verità.
Il credente nel rispetto di tale pratica adotterà comportamenti che collidono con i dettami coranici, come ad esempio, non rispettare il divieto di assumere bevande alcoliche o cibi haram (proibiti, illegali ndr), non rispettare le preghiere canoniche, la visione di filmati pornografici o altro.
Come detto particolare attenzione è stata posta nei processi di radicalizzazione di soggetti detenuti in carcere, dove la popolazione carceraria è composta da coloro che hanno commesso reati di terrorismo o estremismo di natura politico-religiosa, oppure, reati non estremisti violenti e non, e che hanno contatti con detenuti già radicalizzati o estremisti. Infine, soggetti detenuti per reati minori o di altro tipo.
I detenuti ristretti per reati di terrorismo sono attenzionati con maggiore attenzione, inoltre, vengono separati tra di loro e dalla rimanente popolazione carceraria in modo tale che non avvenga una sorta di “contaminazione” di questi, procedura atta a prevenire e attenuare il fenomeno del proselitismo, di indottrinamento o reclutamento.
L’obiettivo è quello di evitare che detenuti per reati comuni o di soggetti sino a quel momento disinteressati alle dinamiche jihadiste, ma che vivono già una situazione di disagio dovuta all’isolamento carcerario, il distacco dai familiari, la sottoposizione a regole ferree proprie di un regime detentivo possano avvicinarsi a persone o gruppi estremisti. Un fase di avvicinamento, quindi, che corrisponde spesso ad una conversione all’Islam e all’avvio del processo di radicalizzazione.
L’individuo radicalizzato, affascinato dal messaggio jihadista, è disposto ad entrare in azione col desiderio di diventare un mujaheddin e recarsi in teatro di guerra, raggiunti i quali può essere considerato a tutti gli effetti un foreign fighter.
Nel tempo è sorta l’esigenza di elaborare una sorta di identikit dei combattenti stranieri, e in base alle loro caratteristiche psico-fisiche, sono state formulate due grandi categorie.
Nella prima vanno vengono considerati uomini e donne, con età compresa tra i 20 e i 30 anni, aspetto fisico “europeo”, capaci di non attirare l’attenzione su di loro, di origine nordafricana, balcanica o turca.
E’ stata registrata anche la presenza di foreign fighters di 40 anni, e in rarissimi casi addirittura di 70 anni e provenienti nella maggior parte dei casi da paesi del nord Europa.
La maggior parte di questi sono residenti in comunità musulmane concentrate nei quartieri periferici di grandi città, appartenenti ad un nucleo familiare numeroso, molto unito e, generalmente, con idee religiose tendenti a posizioni estreme o comunque forti; soggetti senza fissa occupazione professionale e con un grado di istruzione medio-basso.
Nella maggior parte dei casi si tratta di soggetti il cui profilo psicologico è caratterizzato da una carente integrazione nella società, e che vedono l’adesione ad un gruppo religioso estremo l’unica possibilità di assumere una identità individuale forte, sino a quel momento assente, e successivamente acquisire l’identità collettiva del gruppo stesso che, in taluni casi, si sostituisce a quella della famiglia.
Un libro molto interessante col titolo “Lettera a mia figlia che vuole portare il velo”, Aicha, madre franco-algerina scrive alla figlia Nawel raccontandole le mille battaglie sostenute per l’integrazione e per la libertà concluse con la tante agognata emancipazione.
Una lettera indirizzata alla figlia adolescente che riscopre, anche a causa di alcune sue frequentazioni, aspetti della tradizione islamica, e con spirito di ribellione e forse di protezione da una società considerata vuota e decadente, sceglie di voler indossare il velo.
Un passo appare estremamente chiarificatore, dove la madre, azzarda una sorta di analisi antropologica del fenomeno dietro la scelta della figlia, e scrive: “Quando il presente ci sembra cupo, il futuro si oscura. Il passato diventa un rifugio confortante. Ma la sua nitidezza è illusoria: ieri non si è mai trasformato in oggi, e ancora meno in domani. Col pretesto che cerchi la tua identità, puoi negare la Storia?”.
L’analisi dei componenti il commando jihadista che il 13 novembre del 2015 ha colpito Parigi, compiendo una serie di attentati simultanei in punti nevralgici della capitale ha dimostrato che i loro profili corrispondono alla citata prima categoria.
Nove jihadisti, uomini e donne che hanno pianificato e realizzato ben tre attacchi esplosivi nei pressi dello stadio di calcio parigino e sei violenti conflitti a fuoco ai danni di altri obiettivi della capitale francese. Tristemente noto l’attacco presso il teatro Batlacan che ha provocato la morte di 93 inermi cittadini, tra cui la studentessa italiana Valeria Solesin. Il bilancio definitivo è di 130 persone morte e 368 feriti.
Le attività investigative della Procura parigina hanno permesso di identificare i sette jihadisti, tra cui un cittadino francese convertitosi all’Islam e poi radicalizzatosi. Si andava delineando già dalle prime battute investigative, un particolare legame con cellule attive in Belgio, infatti, una delle vetture utilizzate dai miliziani jihadisti era stata ivi noleggiata.
Nei giorni successivi, tra il 15 e il 18 marzo 2016, due jihadisti legati alle cellule che hanno operato a Parigi sono stati individuati a Bruxelles, mentre, nella città Molenbeek è stato arrestato Salah Abdeslam, pianificatore ed esecutore delle operazioni parigine.
La seconda categoria, invece, è costituita da credenti musulami giovani nati e cresciuti in famiglie dalle buone condizioni socio-economiche con la possibilità di frequentare scuole o circoli agiati, con profili psicologici che non destano alcun presentimento. Il loro buon, se non ottimo, grado di preparazione culturale rende tali soggetti capaci di pianificare e realizzare attentati ancor più sofisticati e dagli esiti maggiormente tragici.
Il primo luglio del 2016 a Dacca, soggetti il cui profilo corrisponderebbe a detta descrizione, hanno compiuto una strage militarmente ed operativamente ben preparata che ha portato alla morte di ben 24 persone e il ferimento di altre 50. I cinque jihadisti costituenti la cellula operativa sono stati eliminati dalle forze di sicurezza intervenute.
Altra circostanza meritevole di attenzione, e che è emersa nel corso delle diverse attività investigative, e che diversi aspiranti combattenti stranieri prima di intraprendere il loro viaggio verso i teatri di guerra per combattere il jihad, hanno avuto contatti anche con piatteforme web controllate dal Califfato.
Il web, infatti, rappresenta sicuramente il canale privilegiato per la diffusione di ideologie e scritti inneggianti il jihad, quindi, di concetti religiosi di certo estremi favorendo il proselitismo; rende possibile anche la diffusione di manuali utili al confezionamento di ordigni esplosivi, di veleni, nonché, di veri e propri manuali per l’addestramento al combattimento individuale e non.
Avviene una sorta di “passaggio” da un jihad da tastiera ad un jihad concreto, operativo, e come accennato l’aspirante foreign fighter tenta il raggiungimento dei teatri di combattimento in piena autonomia. E’ in questa fase, fortemente delicata, che le organizzazioni jihadiste, al fine di evitare tentativi di infiltrazione, effettuano procedure di «filtraggio» cautelative e molto stringenti.
Le cellule jihadiste, per di più, si adoperano anche in vere e proprie preselezioni di aspiranti mujaheddin grazie all’operato dei noti “facilitatori”, ovvero, di simpatizzanti o di soggetti già fedeli alla causa jihadista che godono di contatti privilegiati utili a favorire la partenza dall’Europa, o altri paesi occidentali, dei militanti prescelti.
Si tratta di un “avvicinamento” che può avvenire non solo nel mondo virtuale di internet, ma anche presso moschee, centri di studio, internet caffè o risto-kebab, dove l’aspirante può ricevere semplici consigli utili per raggiungere il Califfato, oppure, fornire a questi assistenza pratica, non prima però che avvenga formale affiliazione all’organizzazione jihadiste, e su cui si tornerà in seguito.
Le tecniche di reclutamento dello Stato Islamico prevedono il preventivo intervento di una particolare figura, quella del “disseminatore”, il cui compito è divulgare materiale informativo sul Califfato e sottolineare l’importanza del jihad globale.
Si è avuta dimostrazione di come questo fenomeno è stato, ma in realtà lo è ancora oggi, molto attivo nelle banlieu francesi e che si manifesta con la creazione di diversi siti e blog ad hoc per mano di “lupi solitari digitali”, e molto spesso le loro azioni sfuggono al controllo dello Stato Islamico stesso.
Il Califfato ha sempre posto particolare attenzione al web, e sulle potenzialità offerte dallo stesso, infatti, ha dato alla luce il tanto temuto Cyber-Califfato; si tratta di efficienti team composti da jihadisti esperti di informatica ed internet, la cui esperienza ha permesso nel 2015 un’aggressione informatica ai danni dell’USCENTCOM, il Comando Centrale delle Forze Armate statunitensi, di Tampa con sede in Florida.
Al Cyber-Califfato è affidato anche il compito di curare l’affiliazione a distanza di aspiranti foreign fighters, nonché, dei temibili lupi solitari o lone actors che desiderano aderire al progetto jihadista promosso dal Califfo Abu Bakr al-Baghdadi. A seguito di diversi attacchi sul suolo occidentale, si è stati testimoni di dichiarazioni da parte degli attentatori di essere soldati del Califfato e di aver prestato giuramento di fedeltà al suo leader. Dichiarazione spesso corredata dalla successiva e formale rivendicazione da parte del Califfato, e resa pubblica dai siti ufficiali, come ‘Amaq.
Il giuramento di fedeltà, in arabo noto con l’espressione bay’a, secondo la tradizione religiosa islamica fa riferimento al “Trattato di Hudaybiyya”, dove il profeta Muhammad con tale rito formalizzava l’ingresso di nuovi adepti all’interno della comunità.
In era preislamica con il termine bay’a si intendeva un accordo di carattere commerciale tra le parti interessate a compravendite, infatti, in lingua araba assume il significato di “vendere”.
Con la proclamazione del Califfato il rito della bay’a assume forte importanza, non solo sancisce il legame di fedeltà tra un soggetto, una comunità o un’altra organizzazione terroristica con lo stesso, ma legittima in qualche modo il ruolo di guida politico-religiosa di Abu Bakr al-Baghdadi.
Siti jihadisti vicini allo Stato Islamico hanno diffuso un video in cui si riprendeva la cerimonia di bay’a al Califfo, e veniva recitata la seguente formula:
“Nel nome di Dio, clemente e misericordioso,
giuriamo la nostra fedeltà all’Emiro dei Credenti,
Califfo dei musulmani,
Ibrahim Ibn ‘Awad Ibn Ibrahim, al-Badri, al-Husaini, al-Qurayshi, al-Baghdadi.
A lui va il nostro ascolto e la nostra obbedienza,
nell’agio e nelle avversità,
nei momenti di difficoltà e di prosperità,
e il rispetto verso i suoi comandi,
circa l’imposizione della religione di Dio,
e il jihad contro i nemici di Dio.
Non contesteremo i comandi della sua gente,
a meno che non vedremo
che sono chiaramente miscredenti,
e avremo presso di noi la prova di Dio.
Dio è testimone di quanto detto.
Allah Akbar.
Allah Akbar.
Allah Akbar”.
Come contrastare il fenomeno dei foreign fighters, e come agire nel momento in cui questi decidono di rientrare nei paesi di origine?
Recentemente il Ministro dell’Interno italiano, Marco Minniti, ha lanciato l’ipotesi allarmante in base alla quale i foreign fighters possano fare rientro in Europa grazie agli sbarchi clandestini, sottolineando come i controlli sui barconi debbano essere eseguiti con maggiore attenzione. Attività di vigilanza e controllo, che devono essere necessariamente affiancata da intese di natura diplomatica con i paesi deboli del nord Africa, tra cui la Libia.
Il contrasto allo Stato Islamico oltre che dal punto di vista tattico-militare deve basarsi anche sul piano sociale e culturale, con l’obiettivo di scardinare gli obiettivi dell’auto proclamato Califfo Abu Bakr al-Baghdadi, o di suoi eventuali successori.
Oggi contrastare efficacemente la minaccia rappresentata dal rientro dei foreign fighters richiede sinergie valide ed efficaci, che prevedano la disponibilità di strumenti normativi adeguati alle necessità e in grado di sostenere l’impatto con le criticità future.
Parallelamente una profonda conoscenza dei fenomeni storici ed ambientali, risulta senz’altro indispensabile per interpretare correttamente gli eventi, per meglio elaborare analisi calzanti con la realtà e proiettate nel tempo, e infine, fornire ai decisori strumenti interpretativi validi per tracciare linee di condotta e contrasto.
Valido sussidio nel panorama generale di raccolta informativa, analisi e pianificazione di strategie può giungere dall’intelligence, che si è dimostrato essere strumento flessibile ed applicabile con successo in una molteplicità di settori.
In particolare, il ricorso all’intelligence appare proficuo sia nell’attività preventiva che nella fase della ricerca di informazioni qualificate, non acquisibili in altro modo.
Sia la gravità degli eventi terroristici finora verificatisi a livello globale, sia l’esperienza inducono oramai a ritenere più pagante l’attività preventiva che quella squisitamente repressiva, laddove nel primo caso è possibile mitigare il fenomeno, mentre nel secondo ci si limita alla constatazione degli effetti ed alle procedure investigative per accertare le responsabilità ed i moventi.
Nella strategia di contrasto generale, non va considerata in secondo piano l’elevazione di una maggiore consapevolezza collettiva sulle minacce e criticità, anche allo scopo d’agevolare la presa di coscienza da parte delle popolazioni e l’accrescimento della cultura della sicurezza, quest’ultime entrambe candidate ad assumere un ruolo importante nella collaborazione e partecipazione ai temi sociali più impegnativi.
In tale direzione, un contributo qualificato può giungere anche da attori che seguono l’evoluzione dei fenomeni da osservatori meno specialistici al confronto con intelligence e forze dell’ordine, quali i circuiti accademici e taluni soggetti privati, risultati comunque in grado di apportare integrazioni significative e stimolanti in tema di sicurezza sociale.
Nel novero degli strumenti, è bene inserire alcuni elementi che esulano dalla consueta analisi, quali la qualità delle informazioni, troppo spesso sottovalutata, ma destinata ad alimentare il patrimonio informativo, e l’attività diplomatica, che trova maggiore efficacia attraverso accordi di collaborazione bilaterale e multilaterale.
L’azione di contrasto è oramai incentrata su una moltitudine di iniziative che non possono più prescindere da politiche di intervento coordinate e di carattere non solamente nazionale, da sinergie internazionali e rafforzamento delle linee guida della comunità internazionale, nonché, da intelligence ed apparati di sicurezza specializzati ed in condizione di disporre d’un valido presidio informativo.
Come già accennato si deve disporre di legislazioni adeguate alla temperie e di supporto sia all’attività d’intelligence corrente, sia ai compiti più specificatamente perseguiti dalle forze di polizia.
Da non sottovalutare la disponibilità e prontezza d’intervento fuori dai confini nazionali, in operazioni congiunte e tese a neutralizzare le cause, anche con il ricorso all’intervento militare, in quelle aree geografiche da dove il terrorismo si dimostra in condizione di sviluppare linee aggressive.
L’insieme dei concetti espressi potrebbe, forse, essere raccolto nella crescente necessità di poter disporre d’un patrimonio informativo efficiente, dal quale attingere per interpretare i fenomeni e stabilire le strategie più idonee per il contrasto o la mitigazione.
Nel corso degli anni, lo strumento dell’intelligence ha costantemente confermato valenza, originalità ed efficacia, elementi qualificanti che ne hanno convalidato il ricorso in tutti i periodi storici e per i compiti più disparati, nella modernità specialmente durante la così detta guerra fredda.
In campo istituzionale, dove meglio riesce ad esibirsi, l’intelligence può essere considerata oramai irrinunciabile e la dimostrazione è data dai continui processi di aggiornamento cui viene periodicamente sottoposta per renderla il più adeguata possibile alle necessità ed alle emergenze informative. Si tratta d’uno strumento agile, che si sviluppa secondo criteri procedurali oramai disciplinati e, soprattutto, normativamente regolati da articoli di legge, che risponde alle esigenze ed agli input attraverso un modello applicativo comunemente definito ciclo dell’intelligence.
Negli ultimi anni, intorno al concetto d’intelligence s’è registrato un crescente interesse volto ad individuarne i connotati salienti, ai quali attribuire quel carattere di scientificità che nel passato era ignoto agli stessi operatori. È stato così raffigurato il percorso dell’intelligence nel ciclo indicato, articolato su cinque fasi:
- Planning e direction, ovverosia l’input del decisore, alla ricerca di valutazioni attendibili.
- Collection, che prevede la raccolta delle informazioni attraverso le risorse informative.
- Processing, elaborazione e trattamento del flusso informativo.
- Analysis and production, valutazione ed analisi del patrimonio informativo alimentato da un flusso costante.
- Dissemination, fase terminale, in cui il prodotto elaborato viene rimesso al decisore.
Di tutto il sistema, gli elementi principali sono costituiti dall’attendibilità delle informazioni, raccolte prevalentemente attraverso le risorse HUMINT (Human Intelligence) e OSINT (Open Source Intelligence) e della analisi successiva.
Nell’attività di contrasto al terrorismo di matrice islamica, come in qualsiasi altra
iniziativa di ricerca informativa, si è compresa l’importanza della qualità delle informazioni, che devono essere riscontrate e validate anche attraverso incroci e sovrapposizioni ridondanti, ma essenziali per accertarne l’attendibilità.
Non a caso, l’eventuale inquinamento delle informazioni costituisce una criticità elevata, che potrebbe condurre fuori rotta, influenzando la valutazione analitica e l’assunzione di strategie da parte del decisore finale.
L’originalità dello strumento d’intelligence dipende anche dalle modalità esclusive con le quali vengono acquisite e gestite informazioni che non possono essere patrimonio conoscitivo di altri soggetti istituzionale, tanto meno delle forze di polizia che, per loro natura, operano con procedure e disponibilità di leggi ben differenti.
È proprio la peculiarità rappresentata dall’intelligence a comprometterne la notorietà presso l’opinione pubblica, che spesso l’associa al concetto di mistero, mentre l’indirizzo reale prevede la dissipazione di dubbi e zone d’ombra, a tutto vantaggio della conoscenza.
Nel campo del contrasto al terrorismo, tuttavia, è difficile immaginare la plateale ammissione di paternità di successi o operazioni, entrambi i quali devono rimanere riservati, così come le procedure per addivenire ad un risultato positivo.
Una chiave di lettura dell’efficacia può, però, esser data proprio dalle differenze che intercorrono con gli altri strumenti di investigazione ed analisi, privi, ad esempio, del contributo integrativo che può giungere dallo scambio informativo con strutture collegate.
La minaccia attuale rappresentata, anche dal fenomeno dei foreign fighters, ha assunto una pluralità di forme e criticità che impone uno scambio informativo, sia a livello nazionale che internazionale, tempestivo ed efficace al fine di predisporre adeguate misure di prevenzione e repressione.
All’interno del circuito dello scambio informativo, di fondamentale importanza appare anche il coinvolgimento di organizzazioni culturali e religiose, istituzioni private attive nella security, mondo aziendale, nonché, delle ONG.
Attualmente l’information sharing appare abbastanza carente, ma va sottolineato altresì, che lo scambio informativo può interessare solo quelle informazioni disponibili che non sempre lo sono tempestivamente.
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