settembre 29, 2017
STATO ISLAMICO: LA PAURA COME ARMA
di Ilaria Stivala
Nel giugno del 2014, il gruppo di jihadisti dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (Isil), più noto come Stato Islamico dell’Iraq e della Siria (Isis), annunciarono la creazione di un califfato islamico nei territori controllati tra Siria e Iraq nominando come proprio leader Abu Bakr alBaghdadi. Presto vennero imposti obblighi di fedeltà e obbedienza assoluta nei territori sotto il controllo del califfato islamico, diffondendo negli Stati occidentali un costante stato di paura e allerta. Ciò si può constatare specialmente dopo gli attacchi terroristici del 13 Novembre a Parigi in seguito ai quali vi è stato un continuo stato di allerta in tutto il mondo per possibili attentati, i quali infine hanno interessato la città di Bruxelles il 22 Marzo. La politica del terrore dello Stato Islamico è sempre stata caratterizzata dall’utilizzo dei mezzi di comunicazione per diffondere messaggi e video minatori alle nazioni, ma anche per diffondere la paura tra le persone comuni, le quali non si sentono più protette all’interno dei propri Paesi e chiedono con sempre maggiore enfasi ai governi una risposta decisa. Quella mediatica è una strategia mai usata dai gruppi terroristici che ha, fin da subito, riscontrato i successi desiderati: le persone sono influenzate nei loro atteggiamenti e nella visione del mondo anche nella quotidianità, ad esempio quando decidono di non correre il rischio di prendere la metropolitana perché temono possa essere obiettivo di un altro attentato o quando guardano con sospetto il loro vicino perché porta con sé uno zaino.
Studi effettuati in seguito agli attentati terroristici avvenuti a Londra nel 2005 o al World Trade Center di New York nel 2001 dalla Scuola di Medicina di Harvard hanno evidenziato come la maggior parte delle persone, sebbene in un Paese diverso da quello direttamente colpito, manifestassero i sintomi di una sindrome post- traumatica accusando alti livelli di stress oltre a una visione negativa del mondo esterno e dell’altro, di colui con una cultura diversa, ritenuto pericoloso. I terroristi usano la paura come arma anche nei confronti dei governi. A seguito di un attentato infatti la fiducia sul loro operato tende inevitabilmente a diminuire e conseguentemente sorgono dubbi riguardanti la capacità effettiva di perseguire gli obiettivi fondamentali di proteggere i propri cittadini, evitare le guerre e dare una risposta concreta alle sfide che gli si presentano. Specialmente in seguito agli attacchi terroristici avvenuti a Bruxelles ci si chiede perché nonostante il massimo stato di allerta non si sia riusciti a prevenire la recente tragedia. Tra le risposte possibili una potrebbe essere la cattiva integrazione tra i servizi di intelligence dei diversi Stati, che già nei mesi scorsi hanno mostrato diverse falle portando a ritardi nelle operazioni e scarso coordinamento. Un’altra è quella che indirizza la colpa all’indecisione dei governi sulla risposta da dare riguardo le sempre più frequenti e violente dimostrazioni di forza da parte del gruppo terroristico: l’oscillazione tra una linea più moderata, sostenuta da molti Paesi che temono di ripetere l’errore commesso attaccando la Libia tra cui l’Italia, e una linea maggiormente interventista sostenuta dal Presidente Vladimir Putin, che presuppone un immediato contrattacco diretto a distruggere le forze dello Stato Islamico.
I jihadisti si espandono con velocità allarmante e continuano a disporre di ingenti finanziamenti derivanti dal riciclaggio di denaro, dal business del petrolio presente nelle aree conquistate, ma anche da fonti ancora difficili da chiarire che si teme abbiano origine proprio in occidente. Infine, un’ultima risposta al perché nonostante lo stato di allerta non si sia riuscita a prevenire la recente tragedia potrebbe essere quella della paura, o meglio, dalla mancanza di paura che sembra contraddistinguere i combattenti: giovani disposti a morire facendosi saltare in aria nelle zone con un’elevata probabilità di causare danni tra i civili e innescare il continuo stato di allarmismo, giovani che credono fermamente nell’idea di poter diffondere nel mondo la vera e più pura fede. Le ricerche più recenti hanno rivelato che essi vengono reclutati non solo all’interno delle moschee presenti nei territori controllati dai terroristi, per credenza verso il comune ideale o per incentivi economici, ma anche sul web tra giovani occidentali, spesso appartenenti alla seconda o terza generazione di immigrati o neo- convertiti, che non riescono ad integrarsi o respingono la cultura con cui sono cresciuti, essi spesso provano piacere nel dimostrare la paura e la sensazione di debolezza che riescono a suscitare nel mondo. Secondo quest’ultima tesi dunque il contrasto al terrorismo dovrebbe avvenire in primo luogo proprio all’interno dei Paesi occidentali cercando un modo per evitare la diffusione del malessere e della mancanza di identità che sembra spingere verso derive estremiste con l’obiettivo di diffondere un senso di costante insicurezza.
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